Nove del mattino. Dopo una corsa rocambolesca sotto la neve, saltando da un treno all’altro della metropolitana milanese, salgo per un soffio sul Freccia Rossa diretto a Roma. Ho portato un libro ma non riesco a leggere perché ho l’influenza e la testa che mi scoppia. Nulla tuttavia mi avrebbe tenuta a casa oggi. Già non sono andata al funerale il 15 novembre a Los Angeles, benché fossi stata invitata. Mai più mi permetterei di non presentarmi neppure alla cerimonia in memoria di Dino.

A Roma il tempo è decisamente diverso, vento, sole e cielo azzurrissimo. Alla stazione Termini c’è il regista Fabio Segatori a prendermi. Non ci vediamo da dieci anni ma ci riconosciamo subito, non siamo cambiati poi molto. Andiamo a pranzo all'Osteria del Velodromo vecchio, un delizioso ristorante nel quartiere Appio/Tuscolano (così siamo vicini alla basilica) dove chiacchieriamo piacevolmente di film, i suoi e quelli di altri, gustando specialità romane. Sto  decisamente meglio, l’antinfiammatorio ha fatto effetto. Sembra una giornata come un’altra, Fabio con la sua brillante conversazione riesce a non farmi pensare. Alle tre ci alziamo da tavola e prendiamo un caffè in un bar dove mi tocca litigare per pagare almeno quello, ma senza successo. Segatori è un uomo d’altri tempi, in tutta questa giornata non mi permetterà di tirar fuori un centesimo. Poi ci dirigiamo verso l’Appia antica. Parcheggiamo in divieto, ovviamente, e ci facciamo a piedi i 50 metri fino al civico 136. L’ingresso della basilica brulica di uomini della sicurezza. C’è un tavolo con un quaderno su cui gli invitati possono lasciare il nome e qualche riga. Non mi viene in mente niente, di fianco a me ci sono due signore che spingono, quindi scrivo frettolosamente qualcosa tipo Dottore ci sarò sempre quando avrà bisogno di me ed entro in chiesa, dove tutto è pronto per la cerimonia. Il corridoio dell’unica navata è gremito di gente; fanno la fila per salutare la moglie di Dino, che in piedi davanti all’altare dispensa un sorriso gentile a ognuno, come il sacerdote dispensa l’ostia.

Io e Fabio prendiamo posto in quinta o sesta fila, a sinistra, e guardiamo per qualche minuto lo show dei personaggi che ossequiano la vedova. Noto quattro delle cinque figlie di Dino in prima fila a destra: Dina e Carolina, avute con Martha, e Raffaella e Veronica, avute con Silvana Mangano. Diversamente dal funerale a Los Angeles, qui nessuna di loro è vestita di rosso (la richiesta del rosso era stampata sull’invito, che tra le altre cose recitava: A Dino non sarebbe piaciuto vedere un mare nero al suo funerale, quindi vi preghiamo di rendergli omaggio indossando qualcosa di rosso, il colore da cui traeva la sua forza). Tra poco toccherà a me. Devo andare anch’io a salutare. Mi metto in coda. Christian De Sica gentilmente mi cede il passo, ma lo prego di precedermi. Quattro persone davanti a me, poi tre, poi due. Martha non mi ha ancora vista, non sa neppure che sono qui. La osservo mentre dispensa frasi di circostanza da perfetta padrona di casa. È bellissima, più bella di quando l’ho vista l’ultima volta, circa tre anni fa. Ha i capelli sciolti sulle spalle, un vestitino nero,  décolleté nere ai piedi  e gambe nude. Dino aveva ragione a definirla un angelo. Finalmente la persona davanti a me si sposta. Martha sta già preparando il prossimo sorriso, ma quando incrocia il mio sguardo rimane sorpresa per un attimo, poi scoppia a piangere. Così, all’improvviso. Una creatura meravigliosa e fragile, una donna che ha perso l’uomo della sua vita. La abbraccio, le faccio una carezza sulla testa, la stringo, le chiedo come sta. Anche lei mi abbraccia. La sento esile e leggera. ‘Sei venuta,’ mi dice, ‘sei qui’. Stupidamente, non so cosa dire. Non mi sono preparata nulla. Sento tutto il suo dolore, e non ho neppure una parola per consolarla. Mi esce soltanto ‘Sei bellissima,’ e me ne pento subito perché non c’entra niente, ma è quello che sto pensando in questo momento. Bellissima e leggera come un angelo. Martha ha fatto felice Dino col suo amore, con la sua pazienza, ma anche con la sua bellezza. Un volto come il suo ti fa sentire in pace col mondo. 

Saluto velocemente le figlie sedute in prima fila senza saper cosa dire neppure a loro, e torno al mio posto accanto a Fabio, che mi guarda come se ne avessi combinata una. Secondo lui Martha vedendomi ha pensato a suo marito, non più al personaggio di cui sta rappresentando la consorte. ‘Evidentemente sei l’unica con cui Dino aveva un vero legame, tra tutta questa gente in coda’, mi dice. L’unica certamente no. Una delle poche, sì. E scusatemi se sembro presuntuosa ma lo dico soltanto per amor di verità – e se c’era una cosa che Dino apprezzava di me era la mia avversione per l’ipocrisia. Quanta gente c’è qui a far presenza e basta? Quante vecchie conoscenze, che di Dino ormai non sanno più nulla? In questi giorni ho letto pezzi sui giornali scritti da persone che non lo vedevano da 30 o 40 anni, che non lo conoscevano, che non hanno detto una parola in più su di lui di quelle che si erano già lette il secolo scorso. Non un articolo sentito, autentico, toccante. Il mio qui sul blog almeno questo piccolo pregio ce l’ha. Tanti amici mi hanno detto di aver pianto dopo averlo letto. L’avevo proposto a Vanity Fair, gratuitamente, ma non hanno neppure avuto la cortesia di rispondermi ‘No, grazie’. E quello che hanno pubblicato, be’, è lì da leggere. Non biasimo certo chi l’ha scritto. Suppongo che gliel’abbiano chiesto, e che lei abbia gentilmente acconsentito consegnando un pezzo più che dignitoso e adeguato alla richiesta. Non biasimo neppure la rivista per aver ritenuto fosse quello lo spazio giusto da dare al leggendario produttore di Eduardo de Filippo, Rossellini, Monicelli, Fellini, De Sica, Sordi, Totò, e questo per parlare solo dell’inizio citando a casaccio. La gente conosce gli attori e quando va bene i registi, ovvero gli esecutori (‘la manovalanza’, direbbe qualcuno) e non chi li sceglie, li dirige e li paga, ed è di attori e registi che vuole leggere e sentir parlare. Il biasimo va a quelli che inventano, che battono sulla tastiera tanto per allenare le dita; il criminologo che si vanta di essere stato l’ultima persona con cui Dino ha parlato, il giorno prima di morire, quando Dino era in ospedale privo di coscienza a fare una trasfusione, o i giornali e siti web che lo spacciano per ‘grande tifoso del Napoli’ quando lui, pace all’anima sua, viveva per la Lazio, e solo negli ultimi anni, dopo tante delusioni, aveva deciso di votarsi all'Inter. Ma scusatemi, sto uscendo dal seminato. 

La cerimonia prende il via sulle note di Nino Rota, che ha musicato i film che Dino ha fatto con Fellini. Anche al funerale di quest’ultimo la moglie Giulietta Masina chiese un pezzo di Nino Rota. A officiare la cerimonia oggi c’è monsignor Viganò, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo. Non posso fare a meno di notare che Viganò era il nome della cartolaia nel cui cortile fu trovato il corpo senza vita della mia gatta, Désirée. Ero un'adolescente e fu la prima grande perdita della mia vita. Ricordo che non toccai cibo per giorni. Il primo intervento oggi è quello del nipote Aurelio, seguito da Carlo Lizzani, poi l’omelia di padre Viganò che Gianni Letta definirà tra poco ‘un trattato di cinematografia’. È presente anche l’assessore alla cultura del Comune di Roma, Umberto Croppi, che è arrivato adesso. Viganò definisce Dino ‘un uomo in cammino’, un ‘mecenate moderno’ con un occhio ai conti e l’altro alla qualità, con una vita costellata di enormi successi ed enormi fallimenti. Un ritratto scontato, forse, ma reale. Dopo di lui parla Veronica, che affida un ‘Papà ti amo’ all’etere, quindi è la volta delle bambine, Dina e Carolina, che a dire il vero tanto bambine non sono più, ma io le ho conosciute quando ancora Gigi, il cuoco napoletano di casa De Laurentiis, gli tirava giù i calzoncini per sculacciarle (specie la piccola Dina, un vero terremoto) e fatico a pensarle così cresciute. 

Finora non ho pianto. Mi ero anche portata il fazzoletto, invece me la sto cavando benissimo. Forse ho versato tutte le lacrime che avevo tra l’11 e il 15 novembre. 

Le due ragazze salgono sull’altare insieme, la maggiore prende la parola per prima. Dopo aver citato un progetto che ha fatto insieme al papà e aver promesso di realizzare il loro sogno, Carolina racconta della ‘propensione al melodramma’ del mitico genitore e del giorno in cui, quando lei aveva 5 anni e Dina 3, le donò un anello dicendo che quando lei avesse compiuto 16 anni lui non ci sarebbe più stato. Invece a 16 anni c’era ancora. Quando poi la fanciulla manifestò il desiderio d’iscriversi all’università lontano da casa, Dino le assicurò che sarebbe morto se si fosse allontanata, ma neppure in quel caso morì davvero. Come tutti noi, anche Carolina pensava che il papà ci sarebbe sempre stato. 

Mi sta scappando qualche lacrima, ma la tampono con un rapido gesto e nessuno si accorge di niente.

Adesso tocca a Dina, la più piccola della famiglia. Una ragazza minuta e biondissima vestita da donna, coi tacchi e la gonna al ginocchio. Racconta di quando il papà la prendeva da parte e le diceva: ‘Dina, tu sei l’ultimo dei moicani’. Ecco, qui scoppio a piangere. Perché mi ricordo di quel libro, di quanto Dino lo amasse. E mi sembra di vederlo, con la figlia in braccio, a farle questo discorso. E in effetti Dina fa l’impressione dell’ultimo dei moicani anche a me. Questa ragazzina ha un grande compito da portare avanti, una grande responsabilità sulle spalle. Ammette di non aver letto il libro perché troppo presa dalla saga di Twilight, ma scommetto che ora lo leggerà.

Fabio aveva un pacchetto di fazzoletti di carta. A un certo punto del discorso me l’ha passato e glieli ho consumati quasi tutti. Il mio vicino mi guarda con aria comprensiva, chiedendosi probabilmente chi sia questa pazza che singhiozza disperatamente. In tutta la chiesa siamo in due a piangere a dirotto: io e Lucio Trentini, che con Dino ha lavorato tantissimi anni come direttore di produzione e gli è sempre stato sinceramente affezionato. 

Chiude il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, che fa un encomiabile discorso a braccio, almeno così sembra (se l’ha imparato a memoria, onore doppio per il tempo che gli ha dedicato). È bravissimo, e benché di Dino conoscesse solo il personaggio, nessuna delle frasi che ha scelto di citare è banale. Una tra tutte: ‘La vera star di un film non è l’attore, non è il regista: è la sceneggiatura’. Questo dice molto del grande produttore di oltre 600 film.

La cerimonia giunge alla conclusione. Mi trattengo con Fabio per salutare di nuovo Martha. Nel frattempo stringo la mano ad Aurelio De Laurentiis, che spero non ricordi più nulla di me (nella sezione Aneddoti poi vi dirò perché) e ho  buoni motivi per crederlo visto che è stato così gentile da rispondere all’sms di condoglianze che gli ho mandato dieci giorni fa. Quindi faccio due chiacchiere con Lucio, occhi gonfi negli occhi gonfi.

La chiesa è ormai quasi vuota. Martha ci raggiunge e ci dedica dieci minuti in cui cerchiamo di scherzare su alcune peculiarità di Dino, il fatto che voleva sempre fare tutto subito, che pretendeva che il lavoro che ti dava oggi fosse pronto ieri. Lynch ha detto che neppure dieci canottieri hanno l'energia che aveva Dino tutto il giorno, ed è la pura verità. Ci salutiamo tutti, usciamo. Martha viene rapita dai giornalisti in attesa fuori dalla basilica,  a cui si ferma a concedere un’intervista. Qualche metro più in là anche Aurelio ne sta concedendo una ad altri reporter. Io prendo il bulbo di Rosa generosa Dino De Laurentiis che gli uomini della sicurezza distribuiscono all’uscita (un fiore speciale, appositamente creato da Dominique Massad in omaggio al grande produttore, da piantare e far fiorire) e rientro a farmi una foto ricordo accanto alla gigantografia di Dino a destra dell’altare (c’era anche a Los Angeles). 

Prossima tappa: Pompi, Il regno del tiramisù (che tanto per rimanere in tema di cinema si trova di fronte alla Fono Roma, uno dei due stabilimenti di post-produzione più importanti d’Italia insieme all’International Recording, dove fanno i doppiaggi, per intenderci). Io e Fabio commentiamo la cerimonia, ci rilassiamo con un buon tè e un tiramisù eccezionale, e parliamo di progetti futuri (dei suoi, più che altro, perché io al momento non ne ho). Peccato avere il treno alle sette, è stata una bella giornata. Segatori mi riaccompagna alla stazione con la promessa di sentirci presto, e mi regala il DVD del suo ultimo film americano, Hollywood Flies. Salgo sul treno contenta, con la sensazione di aver fatto una cosa giusta, un piccolo sacrificio per Dino. Mi sento calda, la febbre deve essere risalita, ma ho fatto bene a venire oggi. A Milano, fra appena tre ore, mi aspetta la neve.